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La Shanghai degli affari? Quella vera è sotterranea

Reportage da Shanghai

La Cina e il business internazionale. Ma è nei «fake market» che si trova di tutto e a poco prezzo

Articolo uscito su Il Giornale (cartaceo), il 6 aprile 2018

Shanghai – Una ragazza mangia i suoi noodles nel mercato sotterraneo, lo Yatai Xinyang di Shanghai. Li mangia in piedi, tra finti zaini Herschel di mille colori, scarpe Nike riprodotte alla perfezione, giochi Lego che si chiamano Lepin Technics.

Mercato sotterraneo, ph. Sara Mauri

Nel fake market vige l’arte della contrattazione. Qui, si trovano telefoni Apple che girano con sistema operativo Android, Go Pro fasulle e auricolari iPods palesemente finti, ma che suonano benissimo. Tutto è possibile, anche vestirsi da capo a piedi con prodotti firmati, rigorosamente falsi. Gucci, Prada, Jimmi Choo. Pile di braccialetti per iWatch che, come assicura la venditrice, sono di «puro silicone» e cover Apple che sembrano verissime, con persino il logo stampigliato all’interno. Il tutto dentro un dedalo di vie, al riparo da pioggia e intemperie, in una città indipendente e sotterranea, sotto il museo della scienza e della tecnica di Shanghai.

E se la qualità di quella cucitura non soddisfa il gusto occidentale o se la plastica in confronto alla pelle italiana pare troppo «falsa», vieni condotto, via via, in piccole botteghe dove la qualità è sempre più alta. E se rifiuti un acquisto, il commerciante all’inizio si finge seccato e poi ti rincorre e a gesti accetta il prezzo che proponevi. Ma nel cuore del fake market più famoso della città, esistono ancora professioni antiche: c’è chi fabbrica scarpe di vera pelle, su misura; c’è chi ripara orologi. Qui si parla la lingua internazionale dei soldi e le barriere linguistiche non contano. Yuan, Renminbi, tasso di cambio 1 a 7. Ma gli affari si fanno ovunque, anche in superficie perché Shanghai è la città del business, dove la Cina incontra l’Occidente. E lì, un buon interprete può fare la differenza.

Veduta di Shanghai, ph. Sara Mauri

Il Bund è il simbolo vivente della sopravvivenza di quella parte della Cina pre-comunista e coloniale ultra internazionalizzata: una parte di Inghilterra in terra cinese. Qui si facevano gli affari prima del 1949 e la storia non è cambiata. Il Bund è risorto, lungo Huangpu, il fiume giallo, con l’apertura dei mercati dopo il periodo rosso. Ma l’origine di questo mix di culture non è recente, parte dalla guerra dell’Oppio, quando gli inglesi erano di casa. Adesso, ragazze alla moda passeggiano nella via principale, fanno foto fashion con dietro la statua di Mao Tse-tung, e la vita è come quella di ogni altra metropoli. Questa è la Milano della Cina e l’hinterland è una Brianza meno verde. Griffe prestigiose e alberghi di lusso, dove spicca il vecchio Cathay Hotel, ora Fairmont Peace, un tempo il più lussuoso albergo della Cina, fanno tornare allo splendore degli anni ’20. Chi ci è stato 10 anni fa dice che, dove ora ci sono motorini rigorosamente elettrici e auto nuove, c’erano i risciò a pedali. Prima quasi nessuno parlava inglese e adesso, in centro, alcuni lo parlano e altri fanno finta di capirti e rispondono sempre «yes».

Sulla Pearl Tower, ph.Sara Mauri

Il Great Firewall, il grande muro di internet della Cina, funziona benissimo: niente Whatsapp, niente Facebook, Twitter, Instagram, Google. Solo Bing, WeChat e le app native cinesi. Tutti camminano con il telefono in mano. Anche con la Vpn, i social occidentali vanno a rilento, ma c’è un’applicazione per ogni cosa. Serve prenotare il ristorante? Si prenota dallo smartphone. Serve un taxi? C’è l’app e arriva velocissimo. Gli stranieri, negli hotel, si informano con il China Daily in inglese e guardando la Cnn versione cinese, che trasmette a ruota immagini di Trump già da prima della questione dei dazi. Quasi nessuno usa carte di credito e bancomat, quasi meglio i contanti. WeChat, che ha di recente superato 1 milione di utenti al mese, è usata per i pagamenti. Il cielo è plumbeo, raramente si vede l’azzurro: l’indice di inquinamento resta altissimo. Ma la Cina sta provando a porre rimedio: le biciclette pubbliche sono ovunque, attivabili da un’app; i motorini sono tutti elettrici e bisogna stare attenti a evitarli, perché non fanno rumore. Le targhe delle auto normali, quelle blu, sono nominali e si pagano: il costo si aggira sui 12mila euro, quasi come comprare un’altra vettura. Le targhe verdi, invece, sono per i veicoli elettrici e non sono a pagamento. Le metropolitane sono nuove e moderne, hanno i cartelli in doppia lingua. C’è anche il Maglev, il treno magnetico che si solleva da terra e collega la città all’aeroporto.

Molto è in costruzione. Pudong, grattacieli e acciaio. È la gara alla torre più alta, con ponteggi che arrivano al cielo. Si sale, si sale in alto sulle torri, con ascensori che arrivano oltre 370 metri. Nella zona della Concessione Francese o sul Bund sembra di stare in Francia o in Inghilterra. I grattacieli, invece, guardano a New York. A Shanghai, avevano trovato rifugio 23mila ebrei che scappavano dall’Europa in guerra e che ora sono tornati a casa. Adesso, di questa zona, rimane solo una traccia: la Sinagoga, diventata museo e un pezzo di «piccola Vienna». Ma il sapore di una Cina di altri tempi si può ritrovare camminando nella città vecchia con i tetti delle case fatti a pagoda. È l’unico angolo antico rimasto in mezzo ad altitudini quasi impossibili, però inquinato dal turismo di massa. Ma se il commercio è libero, grazie alla politica di apertura degli anni 90, nelle librerie vendono ancora il libretto del manifesto del partito comunista e i libri sulla politica di Xi Jinping, il presidente cinese. Perché, alla fine, quello comunista resta l’unico partito del Paese.

Sara Mauri
@SM_SaraMauri

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