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Choi Eun-hee, la musa (forzata) di Kim. Addio alla stella che sedusse il dittatore

Choi Eun Hee

Choi Eun-hee, la musa (forzata) di Kim. Addio alla stella che sedusse il dittatore.

La più famosa attrice sudcoreana fu rapita dal regime di Pyongyang nel 1978. Bloccata per anni al Nord, fuggì col marito alla Berlinale.

Articolo uscito su Il Giornale (cartaceo) il 18 aprile 2018.

Gli amanti e il despota, il rapimento, la fuga. Una carriera folgorante, quella di una stella che brillava troppo. È morta Choi Eun-hee, una musa, una dea.

Una vita romanzo, sì, ma anche la vita di un’attrice, iniziata nel 1926 e lunga 91 anni. La diva sudcoreana, nata nella grande città di Gwangju, era talmente brava che fu rapita per girare film nella Corea del Nord. Strappata alla sua Corea del Sud e alla sua libertà, doveva ridare lustro all’industria cinematografica di Pyonyang. Celebre, famosa, catturata dagli agenti nordcoreani per ordine del padre di Kim Jong-un, grande appassionato di cinema e leader della propaganda, e costretta a girare film per il regime perché piaceva, piaceva troppo.

Choi Eun-hee era già un’attrice di successo quando aveva sposato il famoso e brillante regista Shin Sang-ok, abbandonato e poi risposato di nuovo nel corso della sua lunga vita. La carriera di Choi era iniziata nel 1947, con il film A New Oath ed era già famosissima nel 1978 e separata dal marito, quando fu rapita a Hong Kong dalle spie nordcoreane. Sedata, fu trasportata su una nave, il viaggio durò otto giorni.

Anche il marito Shin mentre seguiva le tracce della moglie, fu rapito subito dopo e portato a Pyongyang. I due riuscirono a sopravvivere solo collaborando con il regime. Shin era stato incarcerato perché non voleva collaborare ed era stato liberato perché si era arreso alle richieste del despota.

Bloccati al Nord per otto anni, vengono obbligati a girare diversi film per Kim Jong-il. Nonostante la loro situazione e la loro detenzione, i due celebri ex sposi viaggiano molto sempre sorvegliati a vista – e partecipano ai festival internazionali di cinema. Lei, nel 1985, viene premiata come migliore attrice all’International film festival di Mosca con il film Salt. Lui diventa il regista di punta della macchina cinematografica di Seul. Choi e Shin, divorziati prima della prigionia, si risposeranno in Ungheria per un ordine di Kim.

Ma è anche la fuga che conferisce alle loro storie un non-so-che di romanzato. Nel 1986, alla Berlinale, riescono a evadere dalla sorveglianza degli agenti di Pyongyang. Aiutati dall’ambasciata americana a Vienna, raggiungono gli Stati Uniti, dove rimangono per 10 anni. Solo nel 1999 riescono a tornare a casa, in Corea del Sud.

«Avevo ancora l’incubo di venire catturata dagli agenti nordcoreani», aveva detto Choi.

La storia aveva suscitato perplessità nell’opinione pubblica sudcoreana: veniva considerata troppo cinematografica per essere vera. Ma loro erano riusciti a registrare un nastro dove il dittatore ammetteva il rapimento e questo resta uno dei pochi documenti in cui si sente la voce di Kim. Choi disse che non avrebbe mai perdonato il dittatore nordcoreano per il «vergognoso e oltraggioso» rapimento, ma che Kim li aveva sempre «rispettati come artisti». Shin è morto nel 2006, Choi l’ha appena raggiunto. Il funerale sarà domani, a Seul.

Sara Mauri

@SM_SaraMauri

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