Il Det, dalla Grigna alle più alte vette
Un alpinista che ha arrampicato con i più grandi e che nel territorio lecchese ha fatto la storia
Articolo uscito su La Bréva, Giornale di Lecco (cartaceo), il 15 ottobre 2018.
Lui scende da una stradina stretta, viene dai monti. È un uomo schietto, la sua stretta di mano è forte e sicura. Per andare a trovare il Det bisogna salire a Crebbio, un paese che fa parte del Comune di Abbadia e che sta sopra Mandello, proprio sotto la Grigna.
Giuseppe Alippi, classe 1934, è uno di quei nostri alpinisti che a Lecco e nel mondo hanno fatto la storia. Dalle vette dell’Himalaya con Messner, a quelle della Patagonia con Ferrari. Un grande alpinista, anche se la prima cosa che mi dice è che lui è un contadino. Det è il suo soprannome.
Ma perché Det, gli chiedo? “Quattro generazioni fa, c’erano tre fratelli: Cesare, Luigi e Benedetto. L’unico che ha fatto famiglia è stato Benedetto. La parola Benedetto, in dialettale stanca a dirla. E allora è stato usato il finale Det”.
La storia del Det parte dalla passione.
“L’uomo nasce con una passione che può essere il nuoto può essere uno sport, no? Io sono nato con la passione dell’alpinismo. Allora te praticando questa passione leggi dei libri, leggendo dei libri nella tua mente ti si sviluppa il sognare. Sogni, no? Quando ho iniziato mai mi sarei immaginato di arrivare. Però sono cose che non arrivano così da sole, eh, ci vogliono tanti sacrifici, tante sofferenze. Non è che si colgono le mele così con facilità, ecco”.
Il Det si emoziona mentre parla. Il suo talento naturale per l’arrampicata si è sviluppato andando con suo padre in montagna: “mi ricordo che lui tagliava l’erba e mentre andavamo su vedevo delle stelle alpine non tanto facili da andare a prendere, capisci? Mio papà non voleva, però appena non mi controllava, raccoglievo la stella alpina.”
Per arrivare alle stelle alpine difficili da raggiungere ti dovevi arrampicare come un camoscio. “Te nasci con una capacità. Poi la tua capacità la devi sviluppare, la devi migliorare, no? Io sono nato con l’istinto di andare in montagna perché c’era qua la Grignetta e mio padre mi portava sempre a quei tempi a tagliare l’erba a sinistra del canalone Caimi. Quando eravamo ai Resinelli, da ragazzino, sulla Direttissima alle volte trovavo qualche scatola di tonno o di carne in scatola, giocavo facendola correre nel sentiero”. E “quando mettevo il fucile a tracolla per andare a caccia di coturnici in alta quota, ho capito in seguito che affrontavo il quarto grado senza corde. Questo l’ho capito dopo”.
Il Det arrampicava d’istinto, per necessità. “Quando scherzosamente ho iniziato ad arrampicare, per me era una cosa elementare capisci? Mi ricordo che mi ha portato Gigi Alippi. Gigi era un forte alpinista e ai Resinelli lui gestiva il rifugio Alippi. Gestendo il rifugio Alippi, passavano tanti alpinisti e lui conosceva tutti. Ogni tanto lo portavano in Segantini, a fare qualche salita. Poi mi ha portato al Nibbio a fare la Cassin e quando siamo arrivati in cima io gli ho detto: ma arrampicare è tutto qua?”
All’inizio il Det non sapeva mettere i chiodi perché aveva sempre arrampicato in libera. Poi con il tempo è migliorato, fino a mettere i chiodi come se fossero “parte di un quadro”. Ed era bravo, tanto bravo.
“A quei tempi ero talmente sicuro di me stesso che non conoscevo una salita che non potevo fare, sia di roccia che di ghiaccio. Forse perché ero convinto di essere capace e quando te sei convinto di una cosa sei già avvantaggiato. Mi ricordo che nel 1958, mi sembra, ho ripetuto la via Bonatti al Costanza che, non era mai stata ripetuta. E mi sono detto eh Bonatti era Bonatti. Però Bonatti non ha neanche lui le ali. E allora se è passato Bonatti, perché io no? E infatti sono passato”.
E sul Sasso Cavallo, sulla Grigna, ha disegnato la sua via. “Il Sasso Cavallo è sempre stato la mia palestra. Anzi diciamolo pure: te vai alle scuole elementari, poi fai la maturità, poi fai l’università. La mia università l’ho completata in Patagonia. Però il Sasso Cavallo era qua fuori dalla porta”. Sul Sasso Cavallo “si sono cimentati i più forti alpinisti della storia del passato e io ho imparato ad arrampicare ripetendo le loro righe perché quando ripeti una via è come una scuola.
Quando vedi che c’è là un chiodo, ti chiedi come ha fatto quello là a metterlo.” Ma di traguardi il Det ne ha raggiunti tanti. Anche quel Cerro Campana, che ha corteggiato quattro volte per poi conquistarlo a 71 anni.
“Rimanda, rimanda. Perché la Patagonia è una terra bellissima, però bisogna sempre avere un margine di paura perché la Patagonia ti crea le trappole. Non difficoltà tecniche, ma il cambiamento di tempo. Il tempo lì è molto ostile. È più ostile, per me, che in Himalaya”.
Gli chiedo del sud del Lhotse, in Himalaya. Con Messner, “abbiamo fatto sei mesi assieme”. E il problema era la parete verticale: “Riccardo (Cassin) aveva stabilito che si doveva fare la parete verticale e la parete verticale sull’Himalaya non è il massimo perché devi andare su con un sistema artificiale”. Con i chiodi il problema è il freddo. L’Himalaya “è molto fredda, molto più fredda della Patagonia”.
Il fisico e la tempra del Det vengono dal suo mestiere di contadino. “Io sono un contadino. Il mio lavoro mi ha temprato in un modo diciamo continuativo per sopportare la fatica con facilità”. Oggi “sono diventati dei giocolieri sulla roccia. Però l’alpinismo non è fatto solo di falesie. Che mi ha temprato è stata la Patagonia, perché ti mette in difficoltà appena metti lo zaino in spalla. Non ci sono sentieri, devi guardare i fiumi e guadare i fiumi non fa parte dell’alpinismo. Però, per arrivare ai piedi della montagna devi guadare anche i fiumi”.
Dice che “c’è una forza ancora che tiri fuori se ce l’hai dentro. Ti scatta automaticamente. Però, questa forza la conosci solo nei casi estremi”. Per capire “c’è un punto in cui vedi una fessura. I chiodi magari ce li hai dietro la schiena, tiri fuori un chiodo e non va bene, ne tiri fuori un altro e non va bene. Uno lo metti nel taschino, l’altro lo metti in bocca. Però quello giusto non ce l’hai ancora e guardi là la mano a cui sei appeso perché è stanca dell’appiglio che è su coi tuoi occhi quasi le imponi “non aprirti. Capisci? Tu la obblighi coi tuoi occhi, la tua immaginazione. Però tutto il meccanismo sta nell’interno. Scatta qualcosa che da forza ai tendini per non aprirsi, perché se no voli”.
E aggiunge: “una volta mi sentivo un cavallo da corsa, oggi mi sento un coniglio”.
Si, però, dico io, che signor coniglio!
Sara Mauri
@SM_SaraMauri